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Il marketing dei futuri

Che il futuro non fosse semplice ma anche (incredibilmente) anteriore ce lo avevano spiegato alle elementari, ma nessuno poteva immaginare che avremmo passato tutta una vita ad amare ed odiare la subdola insidia che si nasconde dietro questa parola rassicurante.
Il futuro è anche quella materia Shakespeariana di cui sono fatti i sogni? Mah, di certo è il combustibile più economico e con maggiore potere detonante che si conosca sulla scena dei cantastorie della politica dai tempi di J. F. Kennedy sino a Matteo Renzi.
Quelle tecniche di comunicazione che i guru della politica chiamano Storytelling, si nutrono infatti di pane e futuro a tutto spiano.
E probabilmente fanno bene, perché il futuro è bellissimo e dosi massicce di futuro non si negano a nessuno, men che meno ai giovani. Primo perché è tutto gratis e secondo perché è assodato che ” il futuro è vostro” debba essere un evergreen da posizionare tassativamente sempre prima del crescendo finale di ogni pistolotto politico che si rispetti.

Il politico non ha bisogno di leggere Aristotele, Machiavelli o men che mai Sartori per capire che il futuro è uno straordinario capo della collezione “dialettica pret a porter”, buono per ogni stagione. Il futuro venduto nei comizi dei primi anni 70 da DC e PCI – scrive Nanni Balestrini – era lo stesso di oggi: “progresso del mezzogiorno, un nuovo sud, lo sviluppo, il pane, il lavoro per tutti, eccetera”.
Il futuro del resto, per sua intrinseca definizione – a differenza del noioso presente – è immacolato e luminoso perché, a ben vedere, non arriva mai. Ma nessuno gliene fa una colpa: è la sua natura.
Il bello è che mentre il passato è proprietà comune a tutti, è noto e poco attraente, invece il futuro è aperto, multidimensionale e estremamente democratico: i futuri sono tanti, tutti diversi, tutti straordinariamente emozionali.
Insomma ordigni potenti, affascinanti e misteriosi. Arabe Fenici che muoiono e rinascono continuamente. Ce ne alimentiamo volentieri perché sono maledettamente evocativi e dannatamente seducenti: nessuno mai riesce a negarsi la possibilità di futuri migliori.

L’homo politicus con un minimo di visione e un sensibile carico di ambizione diventa un professionista del gioco della futurologia totale, sapendo che a questo gioco non si può partecipare con la banalità di un indicativo presente.
L’uomo politicus teorizza i “futuri non muoiono mai”, parafrasando James Bond, per delineare scenari ma soprattutto cambiamenti epocali, piani straordinari, programmi, rivoluzioni, passando con nonchalance tra futuro del paese, dei giovani, dei lavoratori, dei territori, sino al futuro del turismo, dell’agricoltura, dell’industria ecc..
I futuri sono uno strepitoso “Dixan della politica” che ripulisce le nefandezze degli avversari politici per lavare sempre più bianco futuri radiosi e gonfi di promesse.
Ma anche il marketing dei futuri ha i suoi problemi, al giorno d’oggi. Probabilmente, come diceva il poeta Mark Strand “il futuro non è più quello di una volta”.

Ecco perché l’associazionismo può offrire nuove visioni. Sardegna2050 per fare un bell’esempio, il futuro ce l’ha nel nome ma soprattutto nel DNA. E ha un piano non-segreto e non-complesso per addomesticare il futuro e renderlo meno sfuggente: nessun progetto epocale, nessuna rivoluzione totalizzante, nessuna promessa e nessuna aspettativa irraggiungibile: solo piccoli obiettivi vicini, accessibili e misurabili per essere qualcosa di diverso: provare la prospettiva quasi impossibile di trovarsi sempre e simultaneamente nei presenti e nei futuri.

Chissá se per tutti quelli, giovani e meno giovani, che meditano di abbandonare l’Italia per cercare opportunità lavorative all’estero, associazioni come Sardegna2050 non aiutino ad uscire da quello che Piero Ignazi chiama “il vicolo cieco dei partiti” e contribuiscano a far sì che i futuri possano tornare ad essere “quelli di una volta”.

 

Adiosu

 

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